TRADURRE (SUONARE) UNA LINGUA E UN’ESTETICA DOMINANTE DELLA VOCE (E DELLA CARNE)

Il Nobel della letteratura ad Han Kang ci permette di tornare sul (non) luogo del delitto.
Quando si lesse “La vegetariana”, ormai otto anni fa, un racconto originale, sospeso, si coglievano buchini qua e là, nel fluire della scrittura.
Il romanzo, e lo si seppe poco tempo dopo, era stato tradotto non dal coreano, bensì dall’inglese.
La cui versione era un brodino, freddo, preparato da una 28enne – Deborah Smith – che il coreano lo conosceva da pochi anni.
Un pasticciaccio brutto – della cosiddetta industria culturale – che rivela la zona grigia, estesissima, tra lingua e linguaggio originale e ciò che poi arriva, al fruitore (lettore, ascoltatore, ecc.).
Noi leggiamo libri, vediamo film (in Italia c’è questo rito fesso del doppiaggio) tradotti: ci consegniamo alla bravura e alla capacità di un traduttore.
Che è un mestiere difficilissimo. *
Nella musica, solo apparentemente non accade.
Invece, quando un esecutore, un interprete, riprende un brano, che sia una sonata dell’Ottocento o una canzone pop (rock) sta proprio facendo quello: traduce.
Nei “Canti del Salmone” abbiamo percorso una strada, seguito una traccia in più, parallela: siamo partiti da un pezzo di un romanzo, di una poesia, di una performance teatrale, e l’abbiamo re-interpretata. **
Perché la musicalità, i suoni, i ritmi, gli accenti, le pause, stanno già dentro la letteratura.
Basta riconoscerla.
Ecco, la musica e la vocalità estesa permettono di rivelare meglio quei legami, quelle tessiture nel linguaggio.
La lingua si deve spogliare.
E’ ciò che non accade quando leggiamo (tradotta) “La vegetariana” di Han Kang – e mille altri libri – o vediamo doppiato (e tagliato) “Il silenzio” di Ingmar Bergman – e mille altri film.
La musica svela ed espande.
* Angelo Morino, che portò in Italia Bolano, scriveva meglio degli scrittori che traduceva.
** Si canta (quasi) sempre nella lingua originale. Prima si cantano i fonemi, poi il resto (anche il significato). Si traduce solo per perturbare o tradire.
Il fatto che l’ultimissima ristampa dell’esordio dei Queen, anticipata con la pubblicazione di “The night comes down”, contenga un editing intrusivo – anche sulla voce – è solo l’ennesima conferma di una tendenza ormai dominante.
Un’estetica che parte dal canto e coinvolge tutta l’esecuzione musicale.
Non che sia cominciata l’altro ieri.
Ricordiamo un Jacko già decadentissimo, patetico, in Germania, in uno stadio, che mimava in playback.
Con tanto di band, di “manici”, costretti a farlo, che si sfogavano (..) nei finali.
Pavarotti malato, che fingeva di cantare “Nessun dorma” all’inaugurazione di Torino 2006.
Gli U2, tour di Zooropa, con la back up band sotto il palco che suonava (per coprire i vuoti del gruppo) per loro: un’idea di quel geniaccio (pure del male) che è Brian Eno.
La voce di Freddie Mercury – non ne facciamo una questione di gusti: chi se ne frega.. – aveva caratteristiche uniche.
Un vibrato esotico e irregolare (impazzito, velocissimo), estensione e intonazione (era drittissimo..).
Ascoltarlo con – un po’ di – autotune in una bella canzone (ne hanno scritte tante, i Queen..) con altre modifiche (quel rullante), ci fa capire la direzione presa non solo dalla musica popolare.
Se alteri la voce di Mercury, puoi farlo con tutto.
E’ un allontanamento progressivo, che l’AI sta accelerando ulteriormente, dall’idea di una performance tecnica ed emotiva della voce.
Che è sempre più finta, dal vivo – in molti grandi eventi – ormai un’esercitazione in backtracking con la base della prova zero che si sostituisce a ogni cosa.
Il pubblico non riconosce quasi più l’autenticità delle voci, drogato da questo photoshop delle intonazioni artificiali.
Un’ammucchiata che, oltre i campi della trap e dell’elettronica da club, laddove avrebbe un senso (distintivo, sperimentale, manieristico), si mangia tutti i generi.
Con effetti quasi comici nell’indie, stile Bon Iver, e inquietanti nella musica classica e d’esecuzione pura.
Se arriviamo a fare centinaia di editing su un brano di fine Ottocento, lo racconta un fonico da studio (Corin Lee), significa che l’estetica dominante è questa.
Fiction sonora.
Una leggenda metropolitana ci dice di una sinfonia con (più di) 900 interventi di correzione.
Come Enomisossab siamo dall’altra parte della barricata (in una colonia..): la voce deve rappresentarsi tutta, respiro e inflessioni comprese, essendo capace di crearsi gli effetti da sola.
La voce suona.
Ma è lampante la direzione – opposta – intrapresa dal giocattolo (..).
Arriveremo a Maria Callas con Melodyne e a Bonzo Bonham modulato con protools.
“I would find it very bizarre for someone out there to fixed the colors to Michelangelo..”
(Andre Tonelli)