CANTO ORIGINALE
Su “I Canti del Salmone” le diplofonie appaiono e scompaiono, al pari di fenomeni carsici.
L’apertura “Lingua madre” – nomine omen – nella terza sezione contiene un’improvvisazione (rigorosa, un metodo assimilato col tempo) con doppi e tripli suoni che planano.
La voce aperta, più voci insieme, polmonare, con gli armonici.
C’è questo filo sottilissimo che collega Tuva, Mongolia, Canada, Tibet, India, Sardegna, Giappone, Sudafrica.
Quel tipo di canto originale ci sta dentro, sottopelle, come il calcio nelle ossa umane, pulviscolo del big bang.
Sintetizza il rumore e lo scorrere del mondo.
Rito essenziale (femminile) negli inuit, per esempio, oppure in via d’estinzione.
Il rekuhkara negli ainu, che finì con la morte dell’ultimo cantante: era il 1976.
Ne “I Canti del Salmone” abbiamo anche sperimentato, con le soli voci, tappeti di bossa nova a 120 bpm.
Ritmiche nanigo, di origine africana, che connettono le tribù Yoruba a Cuba.
Permettono di stravolgere e ibridare, in movimento, le forme musicali.
La musica totale è già tutta nelle voci: ancora meglio se una voce sola (sempre la stessa, sempre diversa) la sintetizza, evolvendola.
La prospettiva è tutto.