LINGUA MADRE
Abbiamo un rapporto strano con la Francia e il francese.
Un bel pezzo – di maggioranza relativa – della nostra cultura arriva da là, non abbiamo mai introiettato quella lingua (idioma, suono) nel canto.
Allora, all’improvviso, si è presentata l’occasione ne “I Canti Del Salmone” per affrontarla, adottarla, adattarla.
Al canto esteso e alla sonorizzazione di un brano, da un libro che è un poema post moderno.
Farlo risuonare con l’aiuto di una stratificazione di bassi distorti e di una tutor (sigh).
Un cerchio si chiude, al pari di un anello di Saturno, perfettamente.
Su “I Canti Del Capricorno” le diplofonie appaiono e scompaiono, al pari di fenomeni carsici. L’apertura “Lingua madre” – nomine omen – nella terza sezione contiene un’improvvisazione (rigorosa, un metodo assimilato col tempo) con doppi e tripli suoni che planano. La voce aperta, più voci insieme, polmonare, con gli armonici. C’è questo filo sottilissimo che collega Tuva, Mongolia, Canada, Tibet, India, Sardegna, Giappone, Sudafrica. Quel tipo di canto originale ci sta dentro, sottopelle, come il calcio nelle ossa umane, pulviscolo del big bang. Sintetizza il rumore e lo scorrere del mondo. Rito essenziale (femminile) negli inuit, per esempio, oppure in via d’estinzione. Il rekuhkara negli ainu, che finì con la morte dell’ultimo cantante: era il 1976.