IO SONO BUDAI, TU SEI BUDAI, NOI SIAMO BUDAI.

IO SONO BUDAI, TU SEI BUDAI, NOI SIAMO BUDAI.

 
“Cetec topa debette
 Etek glo chri fefee
 Bugiuti gnemelaga
 Pecice…!”
 
In “Epepe” di Ferenc Karinthy, questo canto – in una lingua aliena alla cultura di un (insigne) linguista – rimbalza qua e là nella novella.
La nenia (?) minacciosa viene ripetuta da un gruppo di donne, incuranti della pioggia e dei militari schierati, nel momento più importante del romanzo.
Abbiamo sempre identificato il battito vitale del reggae, il suo levare, con un gesto (..) fisico: il singhiozzo.
La voce oscilla, sui campionamenti Scientist, tra la filastrocca e un gramelot.
Anche il ritornello, la stratificazione del coro decisa con Fabrizio Naniz Barale, preferisce l’equilibrio instabile.
Il ragga (scuro) del secondo pre refrain è ambiguo: sconfina volutamente nella parodia del grunting.  
 
“Tohoree! Muharee!… Tohoree, muharee!…”
 
Le parole inventate, scevre di un significato certo, permettono di creare una poesia vocale decontestualizzata dall’esigenza di un racconto.
Il finale opera una cesura netta col tema principale, ma la lingua di “Epepe” rimane il bordone di tutto.
La voce stira le corde vocali, torna bambina e fugge verso canoni orientaleggianti. 
La base stavolta è Alice Coltrane con Pharoah Sanders.
Che, più o meno involontariamente, ci riporta a Leon Thomas – primattore nell’uso (espanso) dello yodel – e chiude il cerchio. 
 
Campioni del Mondo.
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