III. Sinapsi de “La merce perfetta”

III. Sinapsi de “La merce perfetta”

Venivano in mente molte (troppe) cose per completare (?) il mosaico de “La merce perfetta”.
Descriverlo parzialmente, lasciando le ombre, i punti oscuri, senza spiegare ciò che è diventato.
L’immagine allo specchio è un’allegoria perfetta per rappresentare certe sinapsi: pensiamo di osservare una riproduzione perfetta della realtà, in verità abituiamo lo sguardo a memorizzare un (s) oggetto rovesciato.
Verosimile ma falsato nelle prospettive.
Nei tre bordoni de La Merce ci sono tutto e il contrario di tutto, ma non penso sia casuale che, proprio all’inizio della realizzazione, abbia gradito la visione di “Kynodontas” di Lanthimos.
Forse perchè ho trovato alcune corrispondenze, confortanti, con il disegno in divenire (continuo) del mio lavoro.
Quel film, che come qualsiasi azione che funziona veramente sfugge al governo di chi l’ha ideata, è incentrato sul linguaggio e il potere che esercita su di noi.
Al di là dei riferimenti sociopolitici evidenti (dove, se non in Grecia?), “Dogtooth” affermava l’assoluto dell’alfabeto; la lingua, elemento virale per eccellenza, costruisce la forma mentis e impone l’espressione umana, di ogni tipo (anche quella artistica).
Il linguaggio delitto perfetto, essendo ovunque, si rende invisibile.
Le parole, la loro semantica, sono fondamentali nella macchinazione, nell’idea artificiale dell’habitat.
Il controllo quindi non risiede nelle immagini, ma nel veicolarle con il lessico giusto (gli ordini…) per fabbricare un immaginario potente.
In fondo è la nostra cronaca collettiva, il cosiddetto sistema: che vive appunto di burattinai, corde e burattini.
Ma guai a ricordarlo se ci riferiamo anche alla musica…
Ecco, la destrutturazione metodica, ispirata, è la salvezza della singolarità di un’opera (e di una persona).
Perchè rappresenta una minaccia a un’idea specifica del mondo, qualsiasi essa sia.
Così i ruoli assegnati non valgono; non esistono più gli asserviti al dogma, ma nemmeno i rivoluzionari e i contestatori.
Eppure dovremmo riconoscere la nostra funzione primaria, quella di spugne.
Programmate per assimilare un linguaggio, ripetuto, riportato, cristallizzato: ogni generazione ha uno spartito, imparato a memoria proprio nel momento della crescita e dell’evoluzione.
E in alcuni momenti specifici, ribattezzati con parole di concetto (politica, arte, socialità), riproduciamo quell’abbiccì senza modificare una singola lettera, riga dopo riga.
La consapevolezza massima, la fine di ogni scusa, la libertà, è comprendere di appartenere all’ennesima stirpe di esecutori e, di conseguenza, uscire dal coro.