ARTICOLO DI JAY MCINERNEY “BRIGHTS LIGHTS, BIG CITY INC.”
Ho sentito per la prima volta la parola «yuppie » nell’83, quando vivevo nell’East Village. Allora dividevo un appartamento con il mio miglior amico, scrivevo il primo romanzo e mi guadagnavo da vivere come lettore di dattiloscritti a Random House. Mi stavo godendo una prima colazione a mezzogiorno, da Veselka, sulla Second Avenue, ancora in preda alla sbornia della notte prima (…). In precedenza, mi fermavo da Binibon, ma proprio sul marciapiede Jack Henry Abbott aveva pugnalato il cameriere-drammaturgo Richard Adan e dopo il fattaccio il locale era stato chiuso per mancanza di avventori.
Seduto accanto a me al bancone c’era un pittore, che viveva nel quartiere e amava pavoneggiarsi con gli abiti schizzati di vernice, e a un tratto l’ho sentito borbottare, «Yuppie di merda ». Ho alzato lo sguardo e ho visto una giovane coppia elegante, ovviamente di buona famiglia, del tipo preppy per intenderci, che aspettava che si liberasse un tavolo. I due ragazzi sembravano provenire dai quartieri alti dell’Upper East Side, pantaloni cachi e camicia di cotone. Noi invece eravamo tutti uniformemente anticonformisti nei nostri jeans neri, Ramones nere ai piedi e T-shirt con i logo delle TV. (…) Questo «yuppie» mi suonava nuovo.
Pare che il termine sia apparso per la prima volta nel 1983, quando l’opinionista Bob Greene scrisse un articolo sull’ex leader yippie Jerry Rubin, che organizzava incontri sociali allo Studio 54. In quel giro, a detta di Greene, c’era un tale che giurava che Rubin, da capo degli yippie, era diventato capo degli yuppies. Il neologismo stava per Young Urban Professionals (giovani professionisti metropolitani) e sarebbe passato alla storia come yup, se non fosse stato per Rubin.
Il termine yuppie suggeriva una certa traiettoria evolutiva – o involutiva – rispetto a hippie e yippie. E vantava una storia avvincente: la duplice ironia del perditempo rivoluzionario che si trasforma in imprenditore e capitalista convinto; sullo sfondo, un’atmosfera fascinosa screziata di fatuo edonismo, per non parlare dell’acronimo arguto, che descriveva a puntino una nuova minoranza immediatamente riconoscibile(…).
Il tono con cui si pronunciava la parola yuppie sulla East Fifth Street si caricava progressivamente di odio e disprezzo man mano che i prezzi immobiliari nell’East Village schizzavano verso l’alto. Nel corso di decenni di relativa stabilità, la zona era diventata il bastione degli immigrati dall’Europa orientale e dei giovani artisti. È facile dimenticare, a distanza di tanto tempo, che questa era anche una zona di guerra, dove scippi e stupri erano all’ordine del giorno e non facevano nemmeno più notizia.
Gli Hells Angels imperversavano sulla East Third Street, e al calar della notte si andava a est della Second Avenue a proprio rischio e pericolo. I poliziotti non ci mettevano piede. La East Tenth, oltre la Avenue A, era un supermercato della droga, con spacciatori minorenni che sgattaiolavano dentro e fuori da palazzi fatiscenti. In realtà, vasti settori della città erano invasi dalla sporcizia e in mano alla criminalità. Persino il West Village era assai deprimente in confronto a oggi e a Times Square regnava uno squallore spettacolare. Andate a rivedere “Taxi driver” o “The French Connection” se volete rivivere l’atmosfera di queste zone, allora ridotte a un deserto urbano.
Ma non si trattava solo di estetica. A quei tempi New York era una città, nel complesso, molto più provinciale di oggi, suddivisa a seconda dell’etnia e del ceto sociale. A Little Italy abitavano in preponderanza gli italiani, mentre l’East Village contava per lo più ucraini. I ricchi Wasp (bianchi anglosassoni protestanti) vivevano invece nell’Upper East Side, a ovest della Third Avenue, e Harlem, ovvio, era al 99 percento nera.
Molti bianchi avevano il terrore mortale di appisolarsi in metropolitana e di svegliarsi in corrispondenza della 145a Strada. La classe media bianca defluiva poco a poco dalla metropoli, dove imperversava la criminalità e l’eroina dilagava come un’epidemia (…). Questa era la Manhattan prima dell’arrivo degli yuppies, una città, oserei dire, alla disperata ricerca di riscatto e di rilancio (…).
REAGAN SPIANA LA STRADA AGLI YUPPIES
Il mondo artistico dell’East Village, inaugurato dall’apertura della Fun Gallery di Patti Astor nel 1981, era già lanciato alla grande per la fine dell’83. Le gallerie attiravano i clienti danarosi, ovviamente disprezzati proprio dagli artisti dell’ambiente. Gli yuppies, appena identificati come tali, incarnarono subito la principale contraddizione del settore artistico, che oggi diamo quasi per scontata: sono proprio gli esponenti della borghesia i consumatori finali di tutto quello che l’arte produce al fine di épater la bourgeoisie. Basquiat certo non vendeva le sue tele da cinquantamila dollari agli amici tossicodipendenti.
Sin dall’inizio, si percepiva una certa confusione soggetto/oggetto nel concetto di yuppie, quasi una riflessione sul fenomeno, del tipo «abbiamo conosciuto il nemico ed è dentro di noi». A parte gli occupanti abusivi del centro città, era difficile talvolta trovare un abitante di Manhattan che non avesse adottato il nuovo stile di vita in qualche sua sfumatura. L’iscrizione alla palestra ti qualificava come yuppie? E sniffare cocaina? O mangiare pesce crudo?
Quando ho sentito un agente cinematografico che scagliava sprezzante quell’epiteto contro un gruppo di banchieri all’Odeon, mi sono chiesto che fine avessero fatto i classici oggetti di lancio, quali pentole e piatti.
A livello nazionale, il terreno era stato preparato dall’elezione di Ronald Reagan alla presidenza, l’ex attore con il sorriso Colgate accompagnato dall’imperiosa Nancy, sua moglie. La signora Reagan sborsò 25.000 dollari per il guardaroba dell’inaugurazione, mentre per rinnovare gli arredi dell’appartamento presidenziale alla Casa Bianca non esitò a spendere 800.000 dollari. Pare che a quei tempi fossero un sacco di soldi, a giudicare dallo stupore con cui la cifra passava di bocca in bocca. Per il servizio di porcellana, la fattura fu di 209.508 dollari, che sembrano tanti ancora oggi.
Che lusso! Dopo gli anni di Jimmy Carter, che compiangeva il malessere nazionale e ci raccomandava di ridimensionare le aspettative e trasportare da soli le nostre valigie, i Reagan irruppero sulla scena come fautori inconsapevoli della bella vita. I consumi sfrenati erano una buona cosa. In America era spuntato finalmente il sole, secondo Reagan, quasi a voler dire che gli anni Sessanta erano davvero finiti.
All’epoca non lo sapevamo, ma la nascita della nuova specie potrebbe risalire al 22 settembre del 1982, con la prima puntata di “Family Ties” (in Italia «Casa Keaton ») e l’apparizione di Michael J. Fox nei panni di Alex Keaton, il giovane repubblicano con la ventiquattrore in mano. A ripensarci, sì, Keaton era proprio il proto-yuppie. Nato in Africa da genitori hippie impegnati in interventi umanitari, Keaton porta la cravatta anche in casa, adora la ricchezza, il successo negli affari, Ronald Reagan, e sogna di far carriera a Wall Street.
La serie conobbe sette stagioni, dall’82 all’89, e illustrò una strana inversione culturale in cui una nuova generazione conservatrice accantonava tutti i valori liberali dei padri. Gli ideatori della serie, invece, intendevano focalizzare l’attenzione sui genitori, ma il giovane repubblicano ben presto si accaparrò le luci della ribalta. Se sulle prime Keaton poteva apparire un’anomalia, nel giro di brevissimo tempo si trasformò nell’avatar dello Zeitgeist.
«Chi sono tutti questi tipi ambiziosi, con le bottigliette d’acqua firmata, scarpette da corsa, parquet anticato e appartamenti da mezzo milione di dollari in quartieri degradati?» chiedeva la rivista Time il 9 gennaio del 1984. «Gli yuppies», ci veniva spiegato, «si dedicano al duplice obiettivo di fare un mucchio di soldi e di raggiungere la perfezione, grazie alla cura del fisico e della mente, con palestra e psicoanalisi» (…).
LA COCAINA, DROGA SIMBOLO DI UN’EPOCA
Come gli hippie, gli yuppies erano anch’essi figli del dopoguerra, pronti a ribellarsi contro i genitori. Ma gli yuppies non rifiutavano tanto la politica dei padri, quanto i loro gusti e le restrizioni finanziarie. Gli yuppies erano apolitici. Vivere nelle metropoli, per loro una condizione essenziale, era forse la reazione alle periferie, dove molti erano cresciuti.
L’epicureismo di cui andavano fieri rinnegava probabilmente i cibi pronti, in scatola o surgelati, della loro infanzia. E in quanto ad ambizioni, beh, le Bmw e i loft da 450 metri quadrati non costavano certo poco, nemmeno nel 1984. Ma ovviamente si trattava di ben altro, malgrado le caricature, poiché l’etica del far sempre di più e sempre meglio si estendeva anche al campo fisico. Sembra incredibile, ma nel 1979 c’erano davvero pochissime palestre a Manhattan.
Il mio primo romanzo, “Le mille luci di New York”, fu pubblicato nel settembre del 1984, anche se ambientato qualche anno prima, in una New York più sporca e meno ricca. Quale non fu la mia sorpresa quando il Wall Street Journal mi definì portavoce degli yuppies.
Il protagonista del romanzo è un anonimo impiegato e aspirante scrittore sempre sull’orlo della povertà, ma se non vado errato non mangia pesce crudo. Il suo miglior amico, Tad Allagash, è più simile a uno yuppie, un pubblicitario con accesso a tutti i posti giusti, un ragazzo dei quartieri alti che bazzica anche in quelli bassi. E i due insieme sniffano cocaina, conosciuta come «Polvere boliviana per la marcia», che sarebbe diventata la droga emblematica degli anni Ottanta, come l’Lsd lo era stato per i Sessanta.
Per un breve periodo, la cocaina era parsa la droga perfetta per i giovani brillanti e ambiziosi. Tutti sapevano che l’eroina provoca assuefazione e che le anfetamine uccidono, ma la cocaina sembrava innocua. Ti aiutava a star sveglio di notte, e anche il giorno dopo, e se ti sentivi un po’ giù, ti rimetteva in sesto meglio di un caffè doppio. Un amico mi fece notare nel Village Voice
l’annuncio di un’associazione chiamata Cocaina Anonimi. La scoperta provocò grande ilarità.
Era come se ci fossimo imbattuti in una pubblicità per Soldi Anonimi, o Caviale Anonimi. (A quei tempi, l’idea dei sessodipendenti ci avrebbe fatto stramazzare a terra dalle risate). Semplicemente, non credevamo fosse possibile esagerare con una sostanza talmente congeniale. In parte, questo dipendeva dalle nostre limitate risorse, dato che tutti gli amici del mio giro lavoravano nel campo artistico ed editoriale, assai poco remunerativo. Non potevamo permetterci quantità esagerate. Ma anche chi poteva, pensava di aver scoperto il segreto del moto perpetuo.
A causare la morte di John Belushi, nel 1982, era stata l’eroina, ci ripetevamo, non la cocaina, anch’essa presente nella tremenda miscela che gli aveva stroncato il cuore. Sarebbe trascorso quasi l’intero decennio prima di renderci conto che anche con la cocaina c’era un limite. Per qualche motivo, eravamo sicuri che non ci sarebbero stati conti in sospeso da pagare.
E all’improvviso, la coca era dappertutto: a Wall Street, Madison Avenue, Seventh Avenue.
La coca è stata la metafora perfetta per la cultura del consumo incontrollato, una cultura fondata sul credito e convinta che sia possibile rimandare all’infinito ogni conseguenza spiacevole. La cocaina è letteralmente un cane che si morde la coda: in nessun momento si raggiunge mai la pienezza, la realizzazione, in rapporto al consumo dell’esatto numero di righe. La soddisfazione è sempre dietro l’angolo, una riga più avanti.
Ed è stato così che molti di noi hanno imparato che tutto quello che va su, prima o poi torna giù, una lezione ribadita il 19 ottobre del 1987, con il tonfo della Borsa americana dopo un lungo periodo di rialzi pazzeschi. Qualche mese dopo quel Lunedì Nero, Newsweek dichiarò che gli yuppies erano ormai estinti e da allora vari commentatori ne hanno stilato il necrologio. Il più sconvolgente è stato un romanzo dal titolo American Psycho, pubblicato nel 1991 da Bret Easton Ellis, in cui il commiato al materialismo di quell’era è talmente esauriente da apparire definitivo.
Patrick Bateman è il super- yuppie, con in più l’hobby della tortura e del delitto. I suoi gusti sono impeccabili, e il buon gusto è appunto prerogativa di questa specie.
Se qualcuno chiede, come ha fatto di recente mio figlio, «Che cos’è uno yuppie?», basta gettare uno sguardo a Bateman: «Ho sudato come un pazzo in palestra dopo aver lasciato l’ufficio, ma la tensione è tornata, allora faccio 90 addominali, 150 piegamenti e poi corsa sul posto per venti minuti mentre ascolto il nuovo cd di Huey Lewis. Una doccia calda e subito dopo applico sul viso il nuovo scrub dermolevigante Caswell-Massey e spalmo sul corpo il tonificante Greune, poi l’idratante Lubriderm e per finire la crema addolcente per il viso Neutrogena. Sono in dubbio tra due completi: giacca-pantaloni in crepe di lana Bill Robinson comprato da Saks, con la camicia di cotone stampato Charivari e la cravatta Armani. Oppure giacca sportiva in lana e cashmere a quadri blu, camicia di cotone e pantaloni di lana con la piega Alexander Julian, con una cravatta Bill Blass di seta a pois».
GLI YUPPIES DI OGGI
Con Patrick Bateman, Ellis aveva creato il gemello malvagio di Alex Keaton, ormai adulto, l’uomo che crede di più a un completo Armani che alla persona che lo indossa. Fusioni e acquisizioni? Omicidi ed esecuzioni? Facili da confondere, come lo sono gli amici, amanti, colleghi e vittime di Patrick, tutti pressoché intercambiabili.
Per quanto il termine richiami alla mente gli anni Ottanta, lo yuppie non è stato ancora consegnato alla storia. Nel 2000, David Brooks ha cercato di raffinare il concetto, creando il «bobo» (bourgeois bohémien) per descrivere un consumatore presumibilmente più illuminato, capace di abbinare agli interessi personali degli anni Ottanta l’idealismo liberale di un’era precedente; i riferimenti agli yuppies stanno a indicare invece una sottospecie più grezza.
Nel frattempo, dall’albero genealogico della famiglia yuppie è spuntato un nuovo ramo, l’hipster. Gli hipster sono convinti di essere gli anti-yuppies per eccellenza. A differenza dei loro antenati, non vogliono farsi conoscere per la professione o l’ambizione, bensì per l’indifferenza verso entrambe. In questo sottogruppo, il culto della competenza e del buon gusto è ancor più esasperato. Il loro codice, illustrato con sferzante ironia nel “Manuale dell’hipster” da Robert Lanham, pubblicato nel 2003, è fondamentalmente elitista e in controtendenza rispetto alla moda.
Il consumismo hipster ha valorizzato tutto ciò che è alternativo e autonomo, scartando le marche predilette dagli yuppies a favore delle proprie. Allora ecco ricomparire le vecchie magliette, a rimpiazzare le camicie eleganti Turnbull & Asser da portare con il colletto aperto, e la birra Pabst Blue Ribbon ha scavalcato lo chardonnay. Ma alla fine, che vi piaccia o meno Starbucks, una società in cui veniamo identificati per la scelta dei jeans e del caffè rispecchia molto di più Alex Keaton che Abbie Hoffman (…).
Esiste ancora probabilmente qualche manipolo di operai sindacalizzati a Brooklyn e nel Queens, che tracannano birra e se la ridono di chiunque frequenti una palestra o vada a chiedere un caffè in un locale che non sia la latteria dell’angolo, ma in generale la cultura yuppie si è tramutata nella cultura comune, se non nella realtà, quanto meno nelle intenzioni. I baccelli degli alieni hanno invaso il mondo. L’ideale della raffinatezza, la venerazione delle grandi marche e dei capi griffati, il culto della perfezione fisica attraverso ginnastica e chirurgia, vi sembrano forse le pittoresche abitudini di un clan ormai estinto?
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.