6 SECONDI PER CANTARE

La respirazione lenta (..) dovrebbe essere quella della voce. Il canto si controlla, si dispiega, sul respiro.
6 secondi per cantare, 6 secondi per inalare.
Il “sa ta na ma” del Kundalini yoga è così. Il mantra “Om Mani Padme Hum” dei monaci buddisti è così.
La versione latina del rosario cattolico è così.
Inspirazioni di 5,5 secondi. Espirazioni di 5,5 secondi. Corrispondono a 5,5 respiri al minuto.
Mettendo giù le linee ne “I Canti Del Salmone”, la respirazione circolare – la sua idea – è emersa spontaneamente.
Tenere il suono, arricchire l’armonico, scegliere una scansione: l’ossigeno manca il giusto (..), toglie la dimensione del tempo, lo frammenta.
La voce è uno strumento a fiato.

SUL RESPIRO
Nel prossimo Enomisossab – che è già – l’attenzione (tecnica) sulla voce (voci) è (quasi solo) sul respiro. Un trattino, la punteggiatura, che decide gli spazi tra silenzio e suoni della nota (fonemi, armonici, parole). Nella vocalità, un particolare (fondamentale: decide tutto) che si indaga sempre meno: chiedendo scusa a Stockhausen, Ashley, Henze, Bene e altri mille nomi.
Eppure è uno strumento a fiato, atipico, analogico, carne e aria, e altrove – coi fiati – si ricerca sempre di più.
Da decenni.
L’espressività del respiro è l’idea più importante. Che sia una voce, una tromba, un sax, una tuba, ecc.

EDDIE WHO?
Nel tempo, che scorre, si ricerca. La voce, per esempio, il suo uso, sta (sempre più) altrove. Saranno i software, il photoshop dei suoni, sarà il manierismo di voci (che fanno retroguardia).
Allora uno studia l’approccio ai fiati, la vocalità (ebbene sì) nascosta in una tromba, un sax, e vede altri panorami, altre possibilità.
Il curioso caso di Eddie Harris è stato oggetto di alcune sessioni (d’ascolto e registrazione). Un fuoriclasse assoluto, con una tecnica suprema (perché è tutto tecnica, che troppi confondono con tecnicismo) e una visione del futuro (anteriore).
Basterebbero tre brani tre – fuori dal mondo.. – di “Silver cycles” per definirne il talento (e l’importanza).

Poi, qua e là, gli scandalosi (..) album degli anni Settanta dove fotteva il jazz, mescolandolo con mille linguaggi diversi. E quella voce dello strumento che, in certi brani, buca la stratosfera: timbriche, citazioni (avete mai ascoltato un sax tenore suonare come Billie Holiday?), timing, fraseggi.
Un magistero (anche del respiro).
Eppure Eddie Harris, che vendeva dischi negli anni buoni (della musica come vettore culturale), è sparito. Dai libri di storia, dal ricordo degli appassionati: cancellato o quasi.
La risposta è sempre la stessa.
Un altro Grande (grandissimo) scrive di lui (sull’Afrofuturismo).
“The cover of a 1968 album by saxophonist Eddie Harris, featuring his broad, smiling visage positioned comfortably behind an electronic music device to which his horn is connected, laughingly invites the listener to “Plug Me In.”
The title of Harris’s subsequent live album, released in 1969, a year before Miles Davis’s Bitches Brew, warns of “High Voltage.”
Around 1965, Harris had become one of the first musicians in any field to seriously experiment, in concert and on records, with the new real-time music technologies, forging a trenchant connection between advanced electronic music techniques, extended acoustic instrumental technique, and down-home funk.
At heart, Harris was what the Germans call a Bastler, creating self-published, difficult-to-play books of technique and fashioning reed mouthpieces for trumpets, which he used in recordings and performances.
Anticipating Miles Davis by at least two years, Harris used electric pianos and organs, and recorded pieces with realtime electronic sound processors such as the Varitone, a so-called octave divider that synthesized parallel octaves above or below the pitch of a horn, and the Echoplex, an early tape-based delay line noted for its portability.
It is not known whether Davis and Harris ever discussed electronics—or for that matter, science fiction, with which neither artist was particularly associated—but Davis was undoubtedly aware of Harris’s work, not only because Harris was quite prominent himself, but also because Davis recorded the saxophonist’s now-canonical piece, “Freedom Jazz Dance” on his 1967 album, Miles Smiles.”
(George Lewis)
